Recensione a “La vita nascosta”
di Felice Serino
Di Donatella Pezzino
Il poeta: sognatore,
visionario, angelo caduto. Nel caso di Felice Serino, anche
viandante. La cui strada sta in quella sottile zona intermedia tra il
mondo sensibile e la dimensione trascendente. Per questo viandante,
la vita stessa è viaggio; una ricerca continua e instancabile, un
afflato spirituale, prima ancora che lirico, verso quell’oltre
che ogni realtà sembra sempre celare in sé. Non a caso, “La
vita nascosta” è il titolo della pluriennale raccolta di liriche
nelle quali, dal 2014 al 2017, l’anima del viandante si è voluta
raccontare, riversare, svelare: nelle dolcezze dell’attimo, negli
inciampi sotto la pioggia battente, nei vuoti incolmabili, nelle
domande senza risposta; nei lunghi dialoghi con sé stessa e con Dio.
Questo è Felice Serino, fine artigiano di sogni reali e di realtà
sognante, aedo di una dimensione parallela in cui tutto parla con il
linguaggio perfetto, intellegibile solo all’anima: il silenzio. E
in Serino il silenzio racconta i ricordi, le lotte, gli affanni
segreti; facendosi racconto di un lungo percorso verso quel punto
luminoso e vitale che, lungi dall’essere il punto d’arrivo,
diventa abbandono catartico. In questo percorso, l’anima errante si
fa parola, e parola silenziosa; in quella contemporaneità di
passato, presente e futuro che è, in fondo, la vera estensione del
nostro vissuto. Come ogni silenzio, anche la parola silenziosa di
Serino è coincidenza di opposti: tutto e niente, vita e morte,
trascendenza e immanenza, carne e spirito. In quanto tale, ogni
parola è un infinito: di voci, di suoni, di odori; di ricordi, di
percezioni; di gioie incontenibili e di dolori laceranti. Quante cose
quindi potrà raccontare? Quante potrà fare emergere dal cuore di
chi sa ascoltare? Per questo, in Serino l’autore si fa, più che
creatore, scultore del verso: uno scultore sensibile e amorevole, che
rivela, sbozza, combina forme e sfumature; senza mai eccedere, perché
la bellezza, così come la verità, sta sempre nel giusto,
nell’armonico, mai nell’eccesso. Ecco perché ogni poesia di
questo autore spicca per la sua moderazione: nei colori soffusi,
quasi un bianco e nero appena rosato; nel numero dei versi, pochi e
intrisi di dolcezza, anche quando in essi è il grido dirompente, lo
strazio esistenziale, la malinconia che corrode. Un fiore esangue,
spampanato già al suo sbocciare: perché nei suoi colori, l’occhio
dell’anima vede già come fatto compiuto quel trascolorare che
della morte ha solo l’apparenza, ma che in realtà manifesta la
vera essenza della vita. Lo spirito: ecco la dimensione nella quale
tutta la poesia di Serino si fa carne e sangue, per sublimare poi
nella fede ciò che per altri è destinato a rimanere puro male di
vivere. In Serino, la coscienza del dolore è ferita aperta: viva,
bruciante, inguaribile. Eppure, il dolore è luce. Che ci guida, che
ci sostiene. E che pure è possibile amare:
pure
ami la luce
ferita:
chiedile
delle infinite crocifissioni
fattene guanciale
in notti di pianto
Una fine che è dentro
ogni inizio: perché andare avanti è un guardarsi indietro, dove uno
specchio moltiplica all’infinito le nostre contraddizioni:
Luce ed ombra rebus in cui siamo
impronte di noi oltre la memoria
forse resteranno o
risucchiati saremo
ombre esangui nell'imbuto
degli anni
guardi all'indietro ai tanti
io disincarnati
attimi confitti nel respiro
a comporre infinite morti
C’è ovunque, in questo
voltarsi indietro, un forte senso delle cose perdute: non puro e
semplice rimpianto, ma quasi una cancrena, cresciuta nella parte più
nascosta del cuore per poi radicarsi in ogni punto della carne, fino
a creare un velo tra noi stessi e la nostra capacità di rapportarci
al presente:
pensando a te vedo
il vuoto di una porta
e dietro la porta ricordi
a intrecciare sequenze indistinte
sogni e pensieri asciugati
mentre un sole
di sangue s'immerge nel mare
Il presente, in questo senso, si
configura come una lunga sequenza di déjà-vu, intrecciando
il vissuto alla memoria, e le immagini dei luoghi sognati a profumi
realmente accaduti:
del luogo sente quasi il profumo
salire dalla terra
lo spirito che si piega
a contemplare
gli sembra di esserci già stato
o forse l' ha sognato
... e quell'albero vetusto
sopravvissuto
a suo padre a fargli ombra
a occultargli
in parte l'ampia veduta
del mare quello stesso mare
che vide i suoi verdi anni
e il vissuto
(come in sogno) divenuto
lontana memoria
Il mare, la terra, la
giovinezza; la visione, il ricordo, e poi, più profondamente, la
coscienza di sé, nuda, scarna. Un sé da cui la morte, prima ancora
che la vita ci abbia detto chi siamo, ci separa, ci libera,
stemperandoci amnioticamente nelle acque di un cielo in cui la
rinascita è al tempo stesso un ritorno.
alla fine del tempo
è come ti separassi da te stesso
in un secondo ineluttabile strappo
simile alla nascita
quando
ti tirarono fuori dal mare
amniotico
luogo primordiale del Sogno
stato che
è casa del cielo
Nella morte tutto, forse,
sembra acquisire un senso nuovo: perché in quel distacco,
paradossalmente, il mondo ci possiede come mai quando eravamo in
vita:
ritenere antinomia
la morte - la tua
come un abbaglio o un
trapassare di veli
e nel distacco
quando
il mondo senza più te sarà
impregnato della tua essenza
" leggerai" il tuo
necrologio
pagato un tanto a riga
Non manca, in queste
liriche, l’appello al sogno come via di salvezza dalla più scabra
disillusione: ma lo scandaglio, minuzioso e severo, sembra non avere
esito certo. La domanda resta appesa; gli anni a tremare, indistinti,
nella loro stessa ombra. E’ l’indefinito, uno dei motivi
più forti e pregnanti di tutta l’opera: quel punto cartesianamente
evidente, chiaro e distinto, l’unica verità delle cose che, in
ultima analisi, ci è data di conoscere.
è nello spazio delle attese
nel bianco del foglio
nel buco nero del grido di munch
l'indefinito
è nell'aprirsi del fiore
nel fischio del treno in un
lancinante addio
nell'intaglio
dello scalpello su un marmo
abbozzato
l'indefinito è in noi
sin dallo strappo
di sangue della nascita
Non esiste antidoto alla
nostra piccolezza, alla nostra finitezza: tutte le riflessioni, anche
le più raffinate, ci portano sempre allo stesso vicolo cieco, alla
stessa prigione di carne e sangue dove lo spirito soffre, ricorda,
ama. Per questo il viaggio, seppure inquieto e periglioso, è
preferibile alla quieta stasi di una stanza chiusa: “forse meglio
l'attesa/a dipanare e sdipanare le ore/che l'appagamento/senza più
desideri”, perché il bisogno di desiderare è insito nella stessa
condizione umana; quasi come l’atto del respirare, in cui un
respiro ne attende un altro, e poi un altro ancora, per permettere al
corpo di continuare a vivere. E’ questa attesa che rende l’uomo,
pur nella sua limitatezza, arbitro del suo destino; all’interno,
però, di un disegno più grande da cui Serino, in quanto uomo di
spirito e di fede, non può prescindere:
chi mai ti toglierà quel posto
da Lui riservato
secondo i tuoi meriti
altro è la poltrona
accaparrata a
sgomitate
trespolo che pur traballa
come in un mare mosso
finché uno tsunami
non la rovescia la vita
Chi è il Dio di Felice
Serino? Da un filosofo, costantemente proteso al fine lavoro
speculativo, potremmo forse aspettarci qualcosa di complesso, di
aristotelico, che ci spieghi in qualche modo i grandi quesiti
dell’esistenza. Invece, il Dio di Serino è amore. Solo e
semplicemente amore, e conoscibile in quanto la nostra anima ne
costituisce il riflesso:
noi siamo proiezione di Dio
e come angeli incarnati
del nostro Sé
similmente di noi
i nostri figli
-frecce scoccate oltre
il corpo
dall'arco teso dell'amore
E’ il Dio
dell’infanzia, della semplicità: dei lunghi colloqui del bambino
con il proprio angelo custode, della vita dopo la morte,
dell’eternità di quella Luce che culla e conforta l’anima alla
fine del viaggio:
la Tua luce
abita la mia ferita
che trova
un lieto solco
nel suo risplendere
Tu
a farti bambino ed ultimo
per accogliere
il nomade d'amore
dalle aperte piaghe
Piaghe che rimandano ad
altre, più profonde e traboccanti: le piaghe della Passione, il cui
rosso sangue diventa, come l’ultima luce del cielo al tramonto,
faro di salvezza per le anime disperse nei marosi della vita:
acqua mutata in vino
perché continui la festa
così al banchetto del cielo
con l'Agnello sacrificato
acqua e sangue dal Suo costato
dal sacro cuore vele
le vele rosse della Passione
nella rotta del Sole
per gli erranti della terra
E, seguendo questa rotta,
si arriva; come è accaduto alle anime piccole che hanno creduto, e
che chiudendo gli occhi hanno visto, attraversando il fango del mondo
senza restarne macchiati, come espresso in questi versi dedicati a
Madre Teresa:
la verità è il tuo sangue
che vola alto
planando
su celestiali lidi
oltre
le sere che chiudono le palpebre
sul cerchio opaco del male
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